Sentenza n.250 del 2017 della Consulta
Il 1° dicembre 2017 la Corte Costituzionale ha depositato la sentenza n. 250, decisa il 25 ottobre u.s., sulla legittimità costituzionale del DL 65/2015, convertito dalla Legge 109/2015.
Come è noto, il Decreto Legge 201/2011 (ed. “Decreto Salva Italia”) per mettere in sicurezza i conti pubblici, ha bloccato per il biennio 2012-2013 la rivalutazione delle pensioni, facendo salvi i trattamenti pensionistici di importo pari a tre volte il Minimo Inps. Successivamente, con la Sentenza 70/2015, la Corte Costituzionale ha bocciato il DL 201/2011, sostenendo che il diritto a una pensione adeguata non può essere “irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate nel dettaglio”. Intatti, secondo la Corte, il legislatore con quel DL 201/2011 ha fatto un cattivo uso della propria discrezionalità, bilanciando in modo irragionevole l’interesse dei pensionati alla conservazione del potere d’acquisto delle pensioni con le esigenze finanziare dello Stato, sacrificando irragionevolmente l’interesse dei pensionati, soprattutto di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, in nome di esigenze finanziarie neppure illustrate. Per tali ragioni i giudici della Suprema Corte hanno affidato al legislatore un nuovo intervento legislativo per bilanciare in modo diverso i valori e gli interessi coinvolti, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità. Il successivo DL 65/2015 ha seguito tali indicazioni, con effetto retroattivo, seppur limitatamente al biennio 2012-2013.
Con la recente sentenza n. 250/2017, la Corte Costituzionale ha respinto tutte le censure al DL 65/2015, contenute nelle 15 ordinanze di rinvio, sostenendo che essa si colloca nel solco della giurisprudenza della Consulta, in piena continuità con la nota sentenza n. 70/2015. Sempre secondo i giudici della Suprema Corte, il blocco della perequazione per i due soli anni e il conseguente “trascinamento” dello stesso blocco agli anni successivi “non costituiscono un sacrificio sproporzionato rispetto alle esigenze di interesse generale”, perseguite dalle disposizioni impugnate. E’ stato altresì ribadito, sulla scorta della sentenza n. 70/2015, che la rivalutazione automatica è uno “strumento tecnico” necessario per salvaguardare le pensioni dall’erosione del loro potere d’acquisto a causa dell’inflazione e per assicurare nel tempo il rispetto di principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti pensionistici. Va inoltre salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima “le esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale”.
Di conseguenza, il legislatore, si legge nella sentenza, deve muoversi “bilanciando”, secondo criteri non irragionevoli, i valori e gli interessi costituzionali coinvolti, vale a dire, l’interesse dei pensionati a preservare il potere d’acquisto delle proprie pensioni, da una parte, e le esigenze finanziarie e di equilibrio di bilancio dello Stato, dall’altra. In questa azione di bilanciamento, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non può eludere il limite della ragionevolezza rispetto alle scelte in materia pensionistica. Quindi, sulla base di tali scelte, si prefiggono i risparmi di spesa che devono essere “accuratamente motivati”; risparmi che devono essere supportati dalle Relazioni Tecniche. Orbene, proprio dalla Relazione tecnica e dalla Verifica delle quantificazioni relative al DL 65/2015, emergono con evidenza le esigenze finanziarie di cui ha tenuto conto il legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità e nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti pensionistici, oltreché del principio di solidarietà (art. 38 della Costituzione) coordinato al principio di razionalità equità (art. 3 della Costituzione).
Ne è conferma, secondo i giudici, la scelta da parte del legislatore non irragionevole di riconoscere la perequazione in misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del trattamento pensionistico, fino ad escluderla per quelli superiori a sei volte il Minimo Inps. Le limitate risorse finanziarie a disposizione sono state dunque destinate dal legislatore in via prioritaria a quei pensionati con trattamenti pensionistici più bassi, limitando il blocco a quelli medio alti che, sempre secondo i giudici, per giurisprudenza costituzionale, hanno margini di resistenza maggiori contro gli effetti dell’inflazione.